aleks (Anonimo)
(sabato 26 giugno 2010)
Categoria: Altro
la lettera che non ti diedi
Dove io abbia trovato il coraggio non lo so e non lo saprò mai.
Di abituarmi a te intendo.
Abituarmi, innamorarmi, addomesticarmi, scegli tu il suono della parola che ti piace di più.
Quel coraggio di avvicinarti così tanto, così intimamente, così profondamente, ha mutato il colore dei miei giorni.
Ha mutato me in qualcosa che me non sarà più. Dopo di te.
Non do spiegazioni, non trovo risposte, sorrido senza una parola. A chi mi chiede, a chi mi indaga, a chi vuole sapere.. sorrido. Semplicemente.
Succede così, senza tecniche, senza preparazioni.
Lo chiamano amore.
Mi fido.
Sono tornato ieri l’altro dalla tua città. Ho volato tutto il tempo con gli occhi chiusi ed il respiro trattenuto. Ho volato con un pugno stretto. Stretto e vuoto.
L’hostess non ha osato chiedermi se volessi una coca cola. Non avrei saputo tenerla in mano.
Alla fila del check-in, appena prima di imbarcarmi, mi giravo e rigiravo, aspettavo di trovarti dietro a me così, all’improvviso, come una sorpresa, come un riscatto. Come un sollievo venuto a spegnere il fuoco di ogni mia ansia.
Nulla.
Vedevo solo facce stanche, facce senza nome, senza sorrisi, facce che non sapevano di casa.
“Scusi, permesso, è che non so, forse, scusi, c’è un mio amico, mi sembra sia la, mi sembra…”
Ma tu non ci sei stato. La fila si è accorciata e così anche il mio fiato.
“Imbarca qualcosa?” “Si, tutta la mia desolazione. E mi dica quanto costa l’eccedenza.”
Non ha nemmeno avuto un sorriso di commiserazione, nemmeno un pezzetto di consolazione buttato come si buttano gli ossi ai cani. Anche lei, come te, chiusa nel suo silenzio.
Come se non mi conoscessi. Come se io non avessi cuore. E anima.
Sono tornato, sbarcato, a fatica trascinato fino al taxi che mi ha riportato a casa. E a casa, nella mia casa, la tua foto sulla mensola a darmi il ben tornato.
Vaffanculo, ho detto.
Silenzio…
Anche da lì non hai parlato.
Mi sono innamorato di te subito.
Subito non vuole dire “subito – subito”, ma la sera dopo il nostro primo trovarci.
Mi fa paura, sai, a dirlo, a vuotarlo fuori d’un fiato come una nuova annunciazione, come quella del libro sacro, come quando si pronuncia un miracolo. Spaventa più me di quanto possa spaventare te.
Subito.
Cosa vuol dire subito?
Insomma, tu, il banco del bar, io con in mano un piatto, tu con un bicchiere, e io e te ad un passo.
Subito.
Un tuo ciao, io con il cuore agitato, che questa volta uno sguardo mi ha abbattuto come non mai. Uno sguardo, un colpo al petto, frecce, stelle, mi gira la testa ed il piatto quasi mi cade dalla mano. Io che parlo, farfuglio, ciao, io sono - si insomma - piacere, tu che dici e dici e dici , qualcosa, non ricordo, qualcosa…
Subito.
Senza sapere qualcosa di te, senza sapere se sei quello giusto, quello per cui vale la pena buttare all’aria la testa, il cuore, la casa.
Subito.
E non conosco il tuo odore, il suono delle tue parole quando sei stanco, i voli dei tuoi pensieri, quali programmi hanno i tuoi domani.
Subito.
Come se non ci fosse mai stato amore prima, come se non avessi mai sentito dentro - giù in fondo - una melodia che mi accorda ogni organo del corpo. Come quando ti svegli la mattina e ti viene voglia di cantare o ballare in maglietta e pantaloncini, contro luce, di nascosto. Ballare e cantare una musica nuova.
Subito.
Senza che avessi mai detto il tuo nome prima, senza sapere come chiamarti da lontano o scrivere le tue lettere sopra ad un muro fuori da una scuola o dentro a un diario, come fanno gli adolescenti stralunati. Senza aver fatto sudare la mia mano stretta nella tua, in riva ad un pezzo di mare.
Eppure, subito. Mi sono innamorato di te subito.
Perdutamente.
E’ sciocco, lo so, è insensato, è immaturo. Ma così è successo, così e basta.
Irrimediabilmente.
Se mai non avessi risposto alla tua prima telefonata, se mai non ti avessi sorriso da dietro il telefono e non avessi parlato piano il mio inglese per farlo comprendere bene alle tue orecchie.
Colpa di quella tua voce piena di “buona noche alex, buona noche alex..” “No, stupido, quello è spagnolo…b-u-o-n-a notte si dice…”. Buona notte.
E li chiudevo, quei miei due occhi pieni di sogni, con le tue buone notti, li chiudevo e già eri dentro il loro buio. Mi illuminavi.
Se mai non avessi sbirciato dentro le pieghe che ti fa il respiro quando ti addormenti, se mai non avessi creduto che l’odore dei tuoi capelli appena freschi di doccia fosse il miglior odore del mondo. Il più vero. Se mai dopo ogni mio risveglio non avessi cercato un fiore per dire m’ama o non m’ama, come fanno gli stupidi, come fanno quelli che amano, quelli come noi.
O forse, nemmeno con tutti questi “ se mai non..”, saremmo stati comunque noi. Perché “noi” era davvero una cosa bella.
Te lo ricordi? Te lo ricordi, Bill?
Mi senti?
Ti sto chiamando, amore.
Ti sto chiamando, Bill, sono io, sono l’alex, quello di sempre, quello che non è mai andato via.
E’ tutto qui, custodito in questo cuore che hai sballottato per tanto tempo ma che non ha smarrito la memoria.
Te lo ricordi?
Si stava come si sta a cavalcioni su di un arcobaleno. Eravamo colore, eravamo tutti i colori. E di colore avevamo sporche le facce, i sorrisi, i baci. I pensieri, così come i cuori.
E gli altri, tutti gli altri, ci guardavano, in equilibrio tra invidia e stupore. Ci ammiravano.
Contagiosi come non mai, scoppiavamo in una risata improvvisa, respiravamo più a fondo e chiudevamo gli occhi più spesso. Non camminavamo, correvamo!, azzeravamo il tempo, ci reinventavamo , ci meravigliavamo. Continuamente.
“Alex, sai cos’è la grazia?”. Mi chiesi.
“Non di preciso” risposi.
“Non è un’andatura attraente, non è il portamento elevato ci certe persone bene. E’ la forza sovrumana di affrontare il mondo da soli senza sforzo, sfidarlo a duello tutto intero senza neanche spettinarsi.”
Ed io, perso com’ero, abbarbicato sopra un muricciolo in quel pezzo di lago di Como, con la luna a tre quarti sopra le nostre teste, con gli occhi fissi e strafissi nei tuoi, con la bocca un po’ secca di vento un po’ umida di un tuo bacio, pensai che - in fondo - sfidare il mondo insieme a te sarebbe stato come prendere una piccola barca e, lentamente, andare a pescare. Di notte.
Sul lago di Como.
All’orizzonte, c’era aria di tempesta. Ma chi se ne frega! Pensai.
Squilla il telefono...mi si bloccano pensieri e sentimenti tutto d’un colpo...
Riprendo fiato, da te, per un attimo.
Era mia madre. Mia madre con le sue idee volanti ed il suo mondo che delle volte sembra non appartenere a questo.
Vuole sapere come è andato il mio viaggio nella tua città. Vuole sapere se ti ho visto, se Leonardo mi ha visto e ci ha visto, se mi hai portato a visitare l’acropoli o mangiare un gelato. Vuole sapere se l’hotel era decente, la gente cordiale, il tempo bello o brutto, se abbiamo dormito nello stesso letto oppure in riva al mare, di nascosto. E, come sono le stelle ad Atene? Come dicono “ciao”, come “grazie”? Vuole sapere tutto, tutto di colpo, tutto di fretta, che c’è un oceano che separa la nostra comunicazione e il cuore di mamma che non sa attendere le risposte. La lascio parlare e sorrido. Sorrido di quella sua innocenza che, in parte, è riuscita a preservare nonostante il trascorrere degli anni. Per lei certe cose vengono così facili. Per lei l’amore è più semplice che complicato. Ed è arcobaleno tutti i giorni per lei, o quasi.
A volte ho pensato che amasse davvero troppo. Ma mi sono sempre ricreduto. Non c’è mai un troppo in un amore onesto, in un amore umano. Il troppo lo mettiamo noi quando smettiamo d’amare, quando facciamo dell’altro un qualcosa da possedere e non da coltivare, come si fa con i fiori, come si fa con le cose fragili.
Accendo un po’ di musica, mi siedo e mi rialzo, ritorno alla tastiera, mi giro, fumo una sigaretta e poi un’altra ed un’altra ancora. Mangio un biscotto, provo il cioccolato, rifaccio il letto, sposto un quadro, sposto un poco d’attenzione, sistemo l’armadio e spolvero i portaritratti. E poi… poi fumo ancora, e mi siedo di nuovo e sfrego le mani, sfrego il cuore, mi stropiccio gli occhi, mi svesto e mi rivesto. Mi fermo, piango. Mi stringo le braccia contro il corpo, cerco di tenermi fermo, ripiegato come col mal di pancia. Il non averti qui scoperchia il tetto, è un mistero che non comprendo, mi riempie di smarrimento. Mi viene da chiamarti, chiamarti come se fossi qui dietro ad aspettare di rispondermi ..”che c’è Alex, che c’è??!!!”.
Si apre un poco la finestra per il vento, tuona all’improvviso...sento freddo, ma è un attimo. Asia è già sotto le mie gambe, impaurita.
Mia nonna diceva che quando il vento si alza che è già sera, qualcosa d’importante deve cambiare.
Prendo la tua foto e..e..e... mi viene voglia di dire una preghiera, mi viene voglia di bagnarmi sotto la pioggia che cade fuori, mi viene voglia di squarciare il buio con un urlo del cuore.
Mi viene voglia di te.
Dove sei?... Asia dorme già.
Dovresti essere quasi a casa.
Sono le otto e mezza.
Dopo cento e cento chilometri in auto, dopo tre trattative e cinquantaquattro telefonate, dodici perse a vuoto. Col serbatoio quasi secco, l’aria condizionata prosciugata e l’odore di strada sulla pelle, la camicia non più abbottonata e il pacchetto di sigarette accartocciato sul sedile a fianco.
Dovresti essere quasi a casa.
Sono le otto e quaranta.
Dopo le arrabbiature, dopo tua madre che chiama per ricordarti di farle sapere come stai, dopo che Maria ti ha fatto due squilli dall’ufficio, dopo i soliti idioti che ti tagliano d’improvviso la strada e se ne vanno beatamente a quel paese da soli, dopo sette caffè in campagna o in autogrill, dopo un cielo che è cambiato di volta in volta, di ora in ora.
Dovresti essere quasi a casa.
E le lenzuola sono ancora tutte arrotolate sul letto, la mia maglietta lasciata per terra e una birra vuota sul comodino.
Quasi a casa, con ancora i nostri respiri che volano di stanza in stanza ed i piatti della vostra cena di ieri impilati nel lavandino. Con le facce dei tuoi amici appese al muro e una frase scritta su un foglio bianco sopra il tavolino della sala: “La costruzione del mio amore mi piace guardarla salire, come un grattacielo o un girasole. E ad ogni piano c’è un sorriso per ogni inverno da passare, e ad ogni piano un paradiso da consumare…”. L’ho scritta io.
Quasi casa, quasi pace. Finalmente, dopo tutto.
Io no, io non sono lì. Sono qui, nei miei quaranta metri quadri, occhi chiusi, pugni stretti, colmo di silenzio.
Non si muove nulla, quasi nemmeno il cuore.
Non si muove nulla, proprio nulla. Non respiro.
Silenzio.
E’ per sentirti, è per immaginarti, è per essere come se fossi lì, appena dietro la porta, appena ad un passo da un tuo bacio.
E’ perché se non sto così, non sto bene.
Siamo a casa, ognuno la sua, ognuno per sé.
Ho già imparato a conoscere ogni cassetto ed ogni angolo del tuo 22 al secondo piano. Papagou street.
Ogni angolo.
Ogni ombra che fa il sole mentre gira da mezzogiorno al tramonto, ogni scricchiolio di mobile e di cuore. Il tuo.
Arrivo, entro, appoggio il borsone a terra e mi sdraio sul letto.
Dopo essermi infilato una delle tue magliette, dopo aver bevuto un sorso di chinotto, acceso l’aria condizionata e averti stampato un bacio in faccia.
Tutto così, tutto naturale, tutto naturalmente famigliare. Tutto come se fosse sempre stato. Come un matrimonio di ventidue anni. Cose che vengono su da sole come vengono su i papaveri ai bordi dei campi. Cose di me e di te, e di noi insieme. Abitudini che si pigliano, si mescolano e rimangono sparse ovunque, per terra e sul soffitto.
Eppure ti ho trovato appena qualche giorno prima di ieri.
Appena prima di ieri.
Ed invece guarda! Il mio spazzolino nel tuo bagno, qualche mia moneta sparsa sul tavolo in cucina o rotolata sotto il letto per un nostro attacco di passione.
La sveglia che suona alle sette, io che infilo i tuoi occhiali da sole, tu che prepari il caffè.
Mi appoggio con la testa alla tua spalla, gli occhi chiusi, le labbra che sanno di dentifricio. Mugugno.
E poi, e poi… io e te in bagno, un solo specchio dove guardarsi in due, dove ridere mentre ci pettiniamo, mentre ci abbracciamo con le mani bagnate.
Ti amo, ti dico, ma tu sei già avanti, con la macchina accesa. E quasi, forse, non mi senti.
Ieri, all’improvviso, appena dopo mezzogiorno, con l’ultimo caldo, con il cielo pulito.
Ieri, tu.
Si dice sempre che… “quando non te l’aspetti - quando non ci pensi -, giri l’angolo, un qualsiasi angolo, alla svelta, sovrappensiero, con gli occhi bassi e un cielo carico di nuvole sopra la testa. Un passo, un respiro, una rotazione di quarantacinque gradi e ... come per magia, come per un insolito destino, ti trovi di fronte il sorriso che verrà ad abitare ognuno dei tuoi giorni. A volte, anche, per sempre.”
Si dice così, tutti lo dicono a tutti, sempre e comunque. Lo dice anche mia madre.
Lo dici, te lo dicono, ci credi quasi, ti convincono a volte. Te lo senti consigliare quando hai il cuore a pezzi, quando la speranza tocca i minimi storici ed è più bassa delle suole delle tue scarpe.
Quando piove sempre e non alzi la testa per allargare l’orizzonte.
Eppure, come a tutti, come sempre, non succede mai.
Non posso dire così, invece, del mio ventidue giugno.
Ventidue come il civico di casa tua, ventidue come due più due quattro, e quattro-quattro quando sono nato io.
Ventidue giugno.
I numeri, i miei numeri. Un giorno, un numero, dietro il mio angolo.
A me è successo, mi sei capitato per davvero.
Non posso far altro che sorridere, o piangere. Di gioia.
E poi? Cosa ne sarà di tutti questi mie numeri, di tutto questo destino?
Ma tu ora stai cucinando qualcosa, hai preparato la tavola e acceso dodici candele.
Vorrei chiederti, venire da dietro e girarti, girarti come Red girò Rossella mentre il vento andava via, girarti per domandarti e con le dita strapparti le parole dalla gola, dal cuore, respirare dentro il tuo respiro, svuotarti di tutte le parole che ti vivono dentro e di tutte le emozioni che quelle parole le tengono su.
Ed invece ti abbraccio tremendamente, saldamente. Da dietro, senza girarti, senza film.
“Sei mio” mi dico. Piango, ma è la cipolla che hai appena sbucciato.
Venite mio dolce ospite, la cena è servita. E mi sento davvero un re.
Entra di corsa uno zufolo di vento dalla finestra, c’è aria di tempesta fuori che mi mette i brividi su braccia e gambe, e anche un po’ lì, proprio lì, dove c’è il mio cuore da piccolo principe.
Vieni amore, mi dici, vieni qui che le mie braccia sono abituate alla tempesta.
“Can i kiss you?” “No, of course”. Ed in faccia ti scoppia una risata. E in quel tuo ridire io chiudo gli occhi alla notte.
Mi passi sulla fronte la mano per aggiustare i capelli e scacciare i pensieri.
Domani è un altro giorno. Disse Rossella.
Io domani lo tramuterò ancora in oggi. E al diavolo il tempo.
Mi hai preso con foga e a morsi.
Mi hai preso senza quasi permesso, come se dovessi rubare un pezzo di me e portatelo in giro come trofeo. Quaranta minuti di passione e di occhi chiusi.
Io volevo solo abbracciarti, solo inumidirmi un po’ le labbra con quel tuo gusto di cicca che ti porti sempre in bocca.
Ma come dirti di no, amore? Come resisterti?
Da una fessura della finestra ho visto quella luna a tre quarti che avevamo sulla testa quella notte sul lago di Como. E quella luna mi ha commosso. E ti ho lasciato fare.
Ti ho lasciato consumarmi ogni centimetro di pelle, e pensavo, immaginavo, che tu eri come un qualsiasi eroe di una qualsiasi fiaba venuto a salvare il mio mondo.
- Mi salva scopando-, mi sono detto. Mi salva nell’unico modo che conosce.
Mi senti amore?
Mi duole ancora un braccio, mi duole un angolo di schiena, mi duole l’anima.
Mi senti amore?
Forse che mi devo sdraiare sul letto, ancora, nudo. Senza domande. Per averti. Per tenerti.
Mi senti amore?
Ho comprato la crema, ho comprato lenzuola rosse, ho comprato un sorriso nuovo. Mi sono tagliato i capelli, mi sono rasato il viso e sono qui che ti aspetto, scolpito nella posizione che preferisci.
Il telefono è spento, la finestra aperta per far entrare uno scorcio di primavera, il gelato nel freezer per quando avremo finito e vorremo strafogarci di piacere gastrico.
Ho sistemato i fiori sul tavolo, ho acceso l’incenso e profumato ogni spazio intorno. Ho chiamato gli spiriti buoni.
Mi senti amore?
Cosa ti manca, cosa cerchi d’altro che non sia il territorio che è il mio essere?
Ti sei alzato, andato in bagno, tornato e … “devi andare via alle sette, alex..alle sette”.
Tutto qui. Alex, alle sette. Tutto qui.
Eccolo lì il nostro amore: una scopata prima che la sveglia suoni. Alle sette.
Tutto lì. Senza arcobaleno.
Mi hai fatto scoprire la felicità di dormire nudo.
Non avevo mai dormito nudo prima. Anche d’estate, anche da solo, in t-shirt e boxer. Sempre.
Come è bello invece, addormentarsi con l’uomo di cui sei innamorato, che ti fa impazzire, e che sta nudo di fianco a te, abbracciato a te.
E’una sensazione indescrivibile.
Sento tutto, ogni movimento, ogni respiro, ogni centimetro di pelle tua addosso alla mia.
Sento tutto, il piacere di un sogno, il piacere di un tocco, nudo con te.
Sento tutto.
Quando t’arrampichi su di me, stiamo così, dentro il buio, il tuo braccio allungato per coccolarmi il petto, un orecchio, i capelli. Ogni volta è come una sorpresa, ogni volta è nuovo, ogni volta come una prima volta.
E poi io che m’avvicino, parto dalle gambe, arrivo alla pancia, al petto. M’arrampico... e tu a quel punto che mi stringi forte, e io sento di essere arrivato nell’unico luogo dove avrei voluto fermarmi per sempre, da prima ancora di saperlo.
E mi addormento quasi subito, io che ho passato tutti i miei anni a non sapere come prendere sonno. Anni con gli occhi aperti, spalancati nel buio, ad aspettare di vedere un sogno.
Quando ora, dopo di te, dopo ogni giorno venuto dopo il ventiduesimo, sono solo, sprofondato nel mio letto soppalcato, ed è sera, mi copro tutto.
Mi copro per non sentire che non ci sei arrampicato su me, mi copro per aspettare che viene mattina, aspettare che vieni tu. Ancora una volta, ancora per caso, ancora dietro l’angolo.
Io non trovo le parole che hai nascosto, mentre è quasi maggio.
E’ fiorito un ramo di oleandro e sono le nove. Le nove di sera, con l’ora già tirata avanti di un’ora per affrettare il tempo che non abbiamo più.
Mi prendo un attimo ad occhi chiusi per fare del profumo dell’oleandro il profumo della mia pelle.
Occhi chiusi. Tengo il respiro.
Mi pare di potermelo stampare addosso, mi pare che forse, così, cancello un poco del tuo. Che anche se non lo sento, lo invento. E ne ho la casa tutta piena, alle otto di sera, col sole che va giù con la sua ora in più.
Io non trovo le parole che hai nascosto, mentre suona la canzone che assomiglia al rumore dei tuoi passi e dei tuoi abbracci quando mi rotolavi con te nel letto, una risata scoppiata per un attimo di fuoco appena acceso, poca brace, tanta paglia. E subito, subito quello sbranare baci per non rimanere affamati tutta notte. Alle sei del pomeriggio, a casa tua, con l’orologio fermo.
Io non trovo le parole che hai nascosto, mentre metto un passo dietro l’altro sull’asfalto della tua città, con tutta quella gente che parla strano e mi urta un braccio, una gamba, mi schiaccia un piede. Senza perché, senza conoscermi. Senza sapere il mio nome.
Tu lo sai.
Lo hai detto giusto dalla prima volta: a-l-e-s-s-a-n-d-r-o … come fanno i bambini, come quando Dio diede un nome a tutte le cose del creato.
Alessandro. Mi suona dentro se lo dici tu. Mi sento uomo.
Sono qui, ad un passo da me e ad un passo da te. Qui tra il non sapere, il non volere, il non credere.
Sono qui e mi sembra che tra poco, appena è finito questo tramonto che mi spezza lo sguardo, io diventerò come l’oleandro. E tu un fiore scappato.
Sul tavolo di Elisa le nostre carte sparse come i giorni di questo nostro amore che sa di autunno.
Domani mi sveglierò ancora con la solita voglia di potermi stupire trovandoti un passo fuori dalla mia porta di casa. Mi sveglierò e mi verrai alla mente come una preghiera, come lavarsi i denti prima di uscire.
E dove ti troverò? Se non sei fuori dalla porta allora sarai su di un taxi, o nel metro, rosso, giallo, verde. Vado al parco, t’aspetto là. Sotto una quercia, alla destra di un gelsomino. Con un fiore in mano.
E tutte le volte, tutte quelle volte, dopo quei risvegli, dopo quelle ore, io sarò lì sotto quel albero, lo stesso, ad aspettare te, con il mio vestito migliore e il respiro profondo. Pronto per un bacio, pronto per il tuo profumo, pronto per un perdono.
Ed è venuta sera, ed è venuta mattina.
Questa notte ho sognato di me e di te sulla veranda di una casa sulla spiaggia.
Ho sognato che gli anni erano andati avanti, corsi verso l’orizzonte, corsi in spalla a noi.
Tutta una vita insieme, tutta una vita a condividere…con-dividere.
Eri bello, ancora bello, al di la della corsa che gli anni avevano fatto, al di la dei dolori che ci avevano visitato. Segnandoci.
Tenevi un libro tra le mani, sprofondato nella tua sedia a dondolo, proprio quella che usano i vecchi.
Era poco dopo mezzogiorno. Tirava un poco d’aria, tirava un poco di nostalgia.
Io accanto a te, e il mare davanti. E le stronzate, le scopate, le paure, tutte scomparse.
Non quaranta minuti, non un suono di telefono, nessuna sveglia puntata alle sette.
Avevamo avuto dei figli. Neri e mulatti. Vaffanculo alle differenze.
Tutti via, tutti a bagnarsi in altri mari, lontano da noi.
Noi, soli.
Un sospiro, ti è bastato un sospiro, e sei andato.
Sei andato dove davvero non posso seguirti, non ora, non qui.
La brezza ti ha scompigliato i capelli sulla fronte. Io – allora - ricordandomi di come lo facevi tu a me, sono venuto vicino e con la mano te li ho sistemati.
“Dormi amore, dormi un poco prima che viene pronta la nostra cena. Dormi e sogna.”
Ma da quel dormire non ti sei più destato. Andato.
Tutta una vita con te e non è bastata a tenerti.
E’ stato un sogno.
Quando chi amiamo se ne va, quando chi amiamo non c’è più in modo irrimediabile, le cose della vita divengono più difficili.
La cosa più difficile è imparare a dire “io” invece che “noi”. Ricominciare a mangiare a tavola e non sul divano davanti al televisore. E poi abituarsi ad apparecchiare per uno e non per due. A fare la spesa per uno e non per due, a non sbagliare continuamente la quantità, a non dover ogni due giorni buttare cibo scaduto nella spazzatura
Ecco, Bill, questo è quello che mi toccherà a me, da che non ci sarai, da che non avrai scelto la tua vita accanto alla mia.
Domani vado via, compro un biglietto aereo al costo di una caramella e prendo una stanza in un hotel che affittano alle puttane senza soldi.
Domani vado via, altra fila, altro check-in, “imbarca qualcosa?” “si, tutta la mia speranza, quanto è l’eccedenza?”.
Domani vado via, imparo il nome di una altra via, mi abituo ad un’altra casa, altri angoli, altre ombre.
Mi sdraio su di un nuovo letto e chiamo per nome un altro nome.
Domani vado via, non mi volto a cercare nessuno, non aspetto alcun perdono, nessun pezzo di cuore buttato come un osso ad un cane.
Domani vado via, tengo gli occhi aperti per tutto il volo, lascio andare il pugno, respiro una volta in più. Sbarco, corro, un taxi, un sorriso.
Domani vado via, mi perdo in una nuova città, metto un piede dietro l’altro su marciapiedi colmi di gente, tocco mani, sfioro capelli freschi di doccia, annuso fiori di magnolia.
Domani vado via, con in testa nuovi pensieri, con le mani pronte a dare, con la crema per scopare e l’orologio rotto…nessuno verrà a disturbare mentre starò facendo l’amore.
Domani vado via, sarò un uomo migliore, senza paure, senza mal di pancia. Una sigaretta con calma.
Io saprò fiutare l’aria come le marmotte a primavera, saprò trovare la strada per la casa giusta, saprò chiudere gli occhi anche se sono in bilico sopra ad un arcobaleno.
Riderò.
Senza verità a mezz’aria, mi lascerò andare in un volo…direzione luna a tre quarti.
Sarà passato tutto, sarà di nuovo giugno, di nuovo ventidue, che due più due fa quattro e quattro è il giorno in cui sono nato. Porta bene.
Farò una magia.
E da sotto un albero, in un parco, qualcuno, all’improvviso…
E allora, allora…
“Insomma, tu, il banco del bar, io con in mano un piatto, tu con un bicchiere, e io e te ad un passo.
Subito.
Un tuo ciao, io con il cuore agitato, che questa volta uno sguardo mi ha abbattuto come non mai. Uno sguardo, un colpo al petto, frecce, stelle, mi gira la testa ed il piatto quasi mi cade dalla mano. Io che parlo, farfuglio, ciao, io sono - si insomma - piacere, tu che dici e dici e dici , qualcosa, non ricordo, qualcosa…
Subito.”
Perché l’amore arriva così, come un nonnulla, come una fiaba alla prima pagina, come un vento mentre è sera, come è venuto da me e da te.
Domani vado via, e se ti porto con me è perché ti amo.
Perché ora so che io sono migliore di te.
Bill…